Incontriamo Dolores, la maestra curandera, di fronte alla chiesa di Santiago Atitlàn, addobbata, come da tradizione, di drappi viola e bianchi.
Come tutti i comunitarios, Dolores è piccola e indatabile. Una bambina saggia di cinquanta o sessant’anni. Può sembrare anziana perché cammina col bastone, ma solo perché un paio d’anni fa è si è infortunata scivolando in un burrone. È fatta di terra vulcanica e di mais dolce come la sua espressione, ma il suo spirito è lava rovente.
All’interno dell’unica navata che costituisce una delle chiese più antiche del Guatemala è stato fatto spazio, eliminando tutte le panche per permettere al dramma sacro di manifestarsi in tutta la sua forza.
La statua del Cristo, che normalmente giace deposta in una teca con la testa avvolta dal sacro sut’re (il copricapo cerimoniale delle guide spirituali) è legata ad una croce. Intorno al Cristo, che si trova disteso come in una camera ardente, la variopinta gerarchia dei sacerdoti maya e dei cofrades - ossia gli appartenenti alle cofradìa, antiche associazioni religiose in cui si sono conservati il culto maya sincretico e lo sciamanesimo. Tutti indossano gli abiti tradizionale e il sut’re a strisce porpora, arancio e marroni.
Due cerchi di donne munite di candele e in preghiera circondano, come un recinto naturale, la camera ardente del Salvatore. Due lunghe file di persone attendono il proprio turno per avvicinarsi alla statua e portare le proprie preghiere al Signore pronto a discendere a Xibalbà, l’inframondo maya.
La morte del Cristo somiglia a quella dei Gemelli Sacri, Ixbalamké e Hunajpu, che nel Popol vuh, il “testo sacro” dei Maya Kiché, effettuano la propria catabasi per affrontare i Signori degli Inferi e riscattare la testa del padre, Hunhunajpù. Come loro, anche Gesù morirà per risorgere e portare la nuova vita, la stagione delle piogge che arriveranno tra aprile e maggio per nutrire il mais. Come loro, anche Gesù insegnerà una nuova via di illuminazione diversa dalle "tenebre" precedenti.
Dolores sgattaiola claudicando. Nonostante la piccola statura, troneggia mentre umilmente mormora le preghiere di fronte al suo Dio.
Descrivere ciò che accade fuori è facile: sincretismo indigeno. Descrivere ciò che si muove dentro no. La Semana Santa di Santiago Atitlàn, con i suoi tappeti colorati (alfombras) che verranno distrutti dal passaggio delle infinite processioni, sta diventando via via sempre più famosa. I suoi simboli più antichi, come la frutta odorosa che viene appesa agli archi di pino per profumare le strade, vengono continuamente confermati o rielaborati da una sovrascrittura moderna. Gli antichi motivi a fiori e uccelli lacustri che caratterizzavano le alfombras si alternano a coloratissimi personaggi dei cartoni animati giapponesi. Il rito pubblico, una volta evitato dai bianchi come “superstizione india” è oggi atteso da turisti che arrivano da tutto il mondo non solo per assistervi, ma per parteciparvi. C’è un’energia che si insinua sotto pelle e commuove fino all’osso anche chi, come me, ha dei trascorsi poco felici con il cristianesimo.
A breve la veglia funebre terminerà. All’interno della chiesa di Santiago Atitlàn, poco prima dell’altare maggiore, si trova un buco, l’ombelico del mondo, che un tempo era accesso ad una rete di gallerie vulcaniche. Rimasto poco più che un pozzetto chiuso per la maggior parte dell’anno, continua a conservare il proprio ruolo. Al suo interno verrà issato l’albero della croce.
Dio’s - come gli Tz’utujil chiamano la Coscienza universale a cui gli antichi Maya si rivolgevano con il nome di Hunab Ku - si è davvero fatto carne ed è davvero morto per noi. Nel pieno del rituale non sembra esserci ombra di dubbio.
Ma in un mondo privo di peccato come quello maya, che significato ha questa crocifissione, che significato ha questa morte? Lo chiedo a Dolores.
“Prima che arrivassero gli spagnoli, la croce c’era già. Veniva innalzata nell’ombelico del mondo come contatto tra le forze del sottosuolo e quelle del cosmo. È da questo matrimonio tra Terra e Cielo che la vita rinasce.”
Potrebbe sembrare poco credibile, anche perché sappiamo che la croce di Santiago è stata costruita con la chiesa, e nonostante i suoi ragguardevoli 500 anni, non arriva a toccare tempi precolombiani. Eppure a Palenque, un sito archeologico che si trova in Chiapas, Messico, troviamo il “tablero de la Cruz”, un bassorilievo su cui è disegnata la celebre “croce fogliata”. È davvero possibile che il rito sia davvero preispanico e che non si tratti di una sovrapposizione coatta voluta dal colonialismo.
È arrivato il momento. I cofrades si riuniscono attorno alla croce di legno posata a terra con la solennità di un antico rito. Le loro mani, protette da panni candidi, tremano appena, pronte a sollevare il simbolo della fede.
Con gesti misurati e precisi, nonostante la concitazione del momento, i cofrades si chinano verso la croce, innalzandola lentamente. La folla, rapita eppure solenne, si stringe intorno a loro, gli occhi brillanti di devozione e rispetto. Indigeni Maya e forestieri si fondono in un'unica commozione, testimoni di un mistero antico che trascende ogni barriera culturale.
C’è rumore, tantissimo, flash di macchine fotografiche e smartphone sollevati a cogliere l’attimo, ma nonostante questo, sembra che tutto sia avvolto dal più assoluto silenzio, come se la mente escludesse ogni suono.
Mentre la croce s'innalza, le lacrime bagnano molti visi, un tributo silenzioso. Una volta collocata nel suo nuovo santuario (verrà tolta il giorno seguente), ai piedi della croce viene posto un semplice tavolo di legno. Questo modesto arredo diventa un luogo di incontro tra l'umanità e il divino. In fila ordinata, gli indigeni si avvicinano al tavolo, portando con sé le loro offerte di candele, incenso e lacrime.
Le preghiere si mescolano al profumo penetrante del copal che si diffonde nell'aria, mentre le fiamme danzano sulle candele accese. Cuori e anime si aprono in un'ardente comunione con l'infinito, lasciando che le emozioni sgorgino libere. È un momento di catarsi, un'esperienza di purificazione dell'anima, dove la fede si manifesta con tutta la sua eloquenza, un racconto senza tempo, oltre ogni cultura, che continua ad stupire i nuovi turisti, che non cercano più solo svaghi, ma anche significato.
La coloratissima celebrazione della Semana Santa è diventata un’attrazione turistica che richiama kaxlaanes (“stranieri”) sia dal Guatemala che dall’estero e la cosa che più mi sorprende è che pure loro stanno piangendo. Persino io sto piangendo, ma ho gli occhiali da sole proprio per evitare di essere visto.
“Gesù è il dio del mais”, mi sussurra Dolores, “ma è anche Gesù. Con la sua morte, tutti noi siamo purificati.”
Tra antichi riti e celebrazioni moderne, tra simboli precolombiani e tradizioni cristiane, la Semana Santa di Santiago Atitlàn è un'esperienza unica, capace di unire culture e credenze diverse in un'unica danza di fede e devozione.
In luoghi come Santiago, il viaggiatore consapevole trova una porta aperta verso la comprensione e il rispetto delle diverse manifestazioni dell’unico spirito dell'umanità.
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